Non ho mai letto un libro di Antonio Pascale e devo confessare che, dopo quest’articolo, difficilmente spenderò un solo centesimo per una sua opera – aderendo così alle sue teorie sulla contrazione volontaria del reddito. Come al solito tra parentesi in corsivo i miei commenti al testo.
Gli egoisti della decrescita – Filosofi, intellettuali, editori invitano a rallentare. Ma chi è indietro ha tutto il diritto di accelerare – Antonio Pascale, Corriere della sera on line
Mi capita di ascoltare svariate volte la parola decrescita. È di gran moda, la usano un po’ tutti.
(Davvero? Sto cercando sulle prima pagine di Corriere e Repubblica ma non trovo nulla… è curioso come i decrescenti descrivano se stessi come lo 0,1%, mentre i loro detrattori presentano la decrescita come un fenomeno egemone. Speriamo abbiano ragione! Purtroppo, ho paura che si tratti di un espediente retorico. Ho constatato che il critico ‘di sinistra’ ama presentare la decrescita come fenomeno di massa per dire: “ecco, questa è la teoria del popolo-bue, mentre noi raffinati ed elitarissimi intellettuali che fumiamo Gauloises e beviamo Perrier ne vogliamo stare ben alla larga”. Per il detrattore ‘di destra’, invece, che ritiene se stesso parte integrante del popolo-bue, la decrescita è roba per professori annoiati, contestatori borghesi e intellettuali mancati.
Per la cronaca, Pascale, agronomo e scrittore, sostiene una visione di sinistra molto ‘riformista’, ad esempio è favorevole agli ogm perché ‘il biologico è di destra’. Peccato che Gaber sia scomparso prima di leggere Pascale, altrimenti per la sua canzone ‘Destra sinistra’ avrebbe sicuramente aggiunto la strofa “Il cibo biologico è di destra / mangiare OGM è di sinistra” )
Di recente, l’ho sentita pronunciare da Serena Dandini, Luca Mercalli, Carlo Petrini e dal mio scrittore preferito, Sandro Veronesi. E con sfumature particolari anche dai piccoli e medi imprenditori, quelli cioè che dovrebbero crescere.
(Cosa che dovrebbe far riflettere parecchio… oppure pensare che indulgano al sadomasochismo)
Marco Cassini della minimum fax: «Impegnarsi insieme, e reciprocamente, in una campagna di “decrescita felice”: produrre meno per produrre meglio». Il benestante italiano, più o meno di sinistra, si sta inscrivendo al club della decrescita e insiste su un punto: questo livello di consumi non è sostenibile per il pianeta.
(Se non altro apprezzo l’originalità di aver evitato lo scontatissimo termine ‘radical-chic’, sempre pronto per accusare chiunque viva sopra la soglia di povertà e ciononostante invochi giustizia e rispetto dell’ambiente. C’è anche un modo elegante di dire idiozie!)
L’obiettivo è giusto, sono tuttavia incerto se rubricare questa posizione sotto la voce sensibilità verso il prossimo o sotto nuovo egoismo.
(Forse entrambe le cose, perché no? Se preservo il pianeta dalla distruzione lo salvo sia per me che per il mio prossimo. Anche se desiderare la sopravvivenza della Terra non mi sembra particolarmente egoistico)
Il fatto è che il concetto di decrescita non trova, in realtà, spazio nei dipartimenti di Economia, ma abbonda sulla bocca di quelli di noi che non hanno mai superato un esame di micro e macroeconomia, dunque tendono a coprire le lacune tecnico- scientifiche con un raffinato eloquio, grazie al quale i punti nevralgici vengono elusi e concetti tra loro distanti prendono, come dire, una buona e consolante nota, piacevole all’orecchio: l’abbondanza frugale (Serge Latouche).
(Prima constatazione: Serge Latouche, che molti ritengono essere un sociologo o antropologo o altro, in realtà… è un economista! Seconda constatazione: dopo tutto il disastro causato dai grandi soloni dell’economia dobbiamo ancora considerarli dei padri eterni al di sopra di ogni critica? Terza constatazione: almeno gli altri detrattori di Latouche descritti in questa rubrica si prendevano la briga di prendere degli stralci di testo, decontestualizzarli e strumentalizzarli, Pascale non fa neanche questo sforzo!)
O ancora, e sempre sulla capacità oratoria, nella trasmissione Che tempo che fa del 29 gennaio 2012, Daniel Pennac tenta un raccordo tra l’amletica frase di Bartleby lo scrivano — «Preferirei di no» — e l’attuale crisi finanziaria: «La crisi viene da un eccesso di desiderio ». Di fronte a questo accumulo di inutili desideri, meglio una posizione di radicale ma gentile disappunto: «Preferirei di no». Una decrescita gentile.
(Serena o felice, ma anche gentile può stare bene. Ma dove vuoi andare a parare?)
Ma come si misura l’eccesso di desiderio? Il desiderio di Pennac di parlare delle sue idee si traduce in un consumo, culturale e non: deve prendere un aereo, venire a Milano, pernottare in albergo, tocca usare la carta di credito, credito e finanza sono intrecciati, e insomma consumi e Co2 anche per Pennac, e allora viene da dire: non è che il «Preferirei di no», si applica sempre al consumo degli altri o a quei consumi che non ci piacciono?
(E perché, di grazia? Cosa ti fa supporre che debba essere così? E perché Pennac è stato elevato a padre nobile della decrescita? Andate su Google, scrivete ‘Pennac e decrescita’, e come risultati coerenti escono questo articolo di Pascale e pochissima altra roba. Sto cominciando seriamente a non apprezzare più l’originalità di stile…)
C’è da dire che esistono vari modi di intendere la decrescita: a) decrescita come riduzione del Prodotto interno lordo; b) decrescita come riduzione dei consumi; c) decrescita come fuoriuscita «radicale» dall’economia di mercato.
C’è poi chi insiste sul cambiamento delle abitudini e della cultura (Latouche). Un’altra sfumatura — la Decrescita Felice di Maurizio Pallante — si basa sulla distinzione tra «merci» e «beni»: riduciamo le prime e aumentiamo i secondi (interessante online il forum sul tema http://urbiloquio.com/kkblog/archives/ 2009/02/seminario_sulla_decrescita_fe l.php). Sia come sia, i concetti suddetti sono intrecciati e il ragionamento si complica. Per esempio, la mattina quando butto la spazzatura nei bidoni della differenziata ho sempre una crisi ascetica, mi chiedo: ma perché tutta questa plastica? Perché tutti questi consumi?
(Non si tratta di ‘crisi ascetica’ bensì di ‘buon senso’… due concetti un tantino diversi)
Per il resto della giornata sono un consumatore, se compro qualcosa non faccio sottili differenze tra merci e beni, e anzi tento di accrescere il mio personale Pil.
(Bene, in base a quanto ha appena affermato Pascale – cioé che abitualmente non distingue tra merci e beni – dobbiamo immaginare che per ‘accrescere il suo personale Pil’ il nostro eroe abitualmente tenga atteggiamenti di questo genere: in auto, non usare mai marce superiori alla terza per aumentare il consumo di carburante; tenere aperta l’acqua nel lavandino di casa mentre è fuori; aprire le finestre d’inverno per far lavorare maggiormente la caldaia; d’estate tenere il condizionatore tarato su quindici gradi; dormire con luce, radio, televisione accese… con tutte queste cose puoi essere certo che il tuo ‘Pil personale’ crescerà alla grande, e potrai vantartene con i clochard di cui farai presto conoscenza dopo aver buttato una marea di denaro. Evidentemente Pascale, per fortuna del suo portafogli – nonché della sua salute mentale – non si comporta così, semplicemente non sa che cosa sia il Pil)
Non è che questa parola sta diventando una classica parola ameba? Di quelle che significano tutto e niente.
(Invece vuol dire qualcosa, informati! Per quanto non ci piaccia il concetto di Pil, persino noi decrescenti gli riconosciamo il diritto a non essere interpretato a piacimento dal primo che passa!)
In realtà decrescere è facilissimo: basta autoridursi lo stipendio.
(Ecco che sta per iniziare il disastro… quando ignoranza e formule matematiche si incontrano, la catastrofe è inevitabile)
Produzione e reddito sono infatti la stessa cosa. Meno reddito, minor produzione, consumi più bassi. Ci toccherà fare un gesto coraggioso: andare dal nostro editore e chiedere di meno.
(Se i tuoi libri sono delle stesso tenore di quest’articolo, trovo molto più coraggioso l’editore…)
Purtroppo siamo soggetti a un’equazione matematica. L’ha scritta J. M. Keynes: Y (Pil) = C (consumi) + I (investimenti) + G (spesa pubblica) + X (differenza tra esportazioni e importazioni). Se vogliamo divertirci e scrivere un po’ di formule inverse, e se assumiamo che G e X rimangano costanti, il Pil finisce per essere determinato solo da consumi e investimenti: Y = C + I. Perciò, se si riducono i consumi, il reddito si ridurrà, a meno che non aumentino gli investimenti. Ma siccome gli investimenti attuali sono guidati dalle aspettative delle imprese sui futuri profitti, e quindi su quelli che saranno i consumi futuri, una riduzione generalizzata dei consumi finirà col produrre un ristagno degli investimenti. Risultato? Crisi economica e riduzione del reddito. La questione allora andrebbe formulata con un po’ di rigore matematico: quanto siamo disposti a perdere in termini di reddito per salvare il pianeta dall’eccesso di desiderio?
(Facciamo un piccolo sforzo per il povero Pascale immaginando alcune rinunce di reddito che si farebbero ben volentieri per salvare il pianeta:
– il reddito dissipato in inefficienze energetiche;
– il reddito per pagare baby sitter, badanti, assistenza varia se ci permettono di lavorare di meno e prenderci cura direttamente dei nostri cari;
– il reddito per evitare l’acquisto di almeno una parte di generi alimentari e altri beni, se ci permettono di dedicarci seriamente all’autoproduzione;
– il reddito per la circolazione privata e il mantenimento di automobili, se ci viene garantita un’adeguata rete di trasporti pubblici e condivisi;
– il reddito per curare malattie dovute allo stress e all’inquinamento ambientale, se ci vengono permessi ritmi di vita umani e viene tutelato l’ambiente;
– il reddito risparmiato evitando di comprare libri di dubbio valore…)
C’è poi un’altra questione: consumare meno significa consumare meglio? Qualità e quantità vanno di solito di pari passo, perché la qualità costa e i poveri, sempre e dovunque, consumano non solo meno, ma anche peggio dei ricchi.
(Finalmente la perla di inutile buon senso, che non può mancare mai! Sandro Trento, in un precedente articolo commentato in questa rubrica, fece l’incredibile scoperta che è meglio essere ricchi che poveri: Pascale, ricercatore più settoriale evidentemente, ha scoperto invece una correlazione diretta tra redditto e qualità del cibo. Quando si dice i grandi progressi della ricerca)
Ancora un dubbio: ma chi sono quelle persone che stabiliscono cosa possiamo e cosa non possiamo consumare? Cos’è il lusso? Ci sarà un comitato? Insomma oltre al quanto vogliamo decrescere, con quali strumenti intendiamo farlo?
(E perché non parlarne civilmente e democraticamente prima che il problema ecologico degeneri a tal punto che ci sarà davvero un comitato a decidere dispoticamente? In fondo già oggi non parliamo di alimentazione regolata e abitudini di vita sane senza per questo ricevere ispezioni delle SS nei frigoriferi o essere pedinati per strada? Non ci sono regole sulla vendita di alcolici e tabacchi? Sulle emissioni inquinanti e i limiti alla circolazione stradale?
É tanto difficile intraprendere un dibattito serio sul sovrasviluppo, sulle conseguenze negative per il tessuto sociale, l’ambiente e la sua correlazione con la miseria delle aree più povere del mondo? Sul cosa produrre e perché, in quale modo? È un dibattito stalinista?)
Se diamo uno sguardo globale (www.gapeminder.org), notiamo che benessere e reddito sono in crescita, aumenta la vita media e decresce la mortalità infantile. A questi cittadini del mondo, chi gli dice: dovete fermarvi? Oppure: «Preferirei di no»?
(E infatti nessuno ha mai pensato di dire loro di ‘fermarsi’: si raccomanda agli occidentali di smettere di correre, schiantandosi inevitabilemente contro un muro a velocità folle, PROPRIO per lasciare spazio a chi ha invece bisogno e diritto di crescere. Certo il nostro giornalista-scrittore dovrebbe chiedersi quale crescita esponenziale potrebbe permettersi l’Occidente se ad esempio le materie prime africane fossero pagate il prezzo dovuto, se fossero rispettati i diritti del lavoro e condizioni di vita dignitose… Ma per fortuna Pascale ha pensato alla soluzione per salvare capra e cavoli!)
Purtroppo, è vero, le risorse disponibili sono in diminuzione, è necessario produrre con meno input energetici—il segreto si chiama innovazione. Si può fare. L’abbiamo già fatto.
(La tecnologia ci salverà! È sempre pronta a risolvere i problemi di domani… peccato sia inefficace per quelli di oggi!)
Nel 1880 i nostri avi dovevano lavorare sei ore per avere un’ora di luce. Ora basta mezzo secondo. Non siamo i primi a vedere nero. Il reverendo Thomas Malthus, aveva previsto una pessima fine per il nostro pianeta: più risorse, più popolazione, più lotta per dividersi la torta. All’epoca non eravamo nemmeno un miliardo. Negli Anni 60 il club di Roma segnalò un problema analogo.
(E purtroppo caro Pascale i loro timori si sono rivelati giustificati, nel caso non lo sapessi)
Per mantenere un buon livello di reddito, è necessario gestire le scorie.
(‘Per mantenere un buon livello di reddito, è necessario gestire le scorie’; scusate, ma ho sentito davvero l’esigenza di riscrivere questo capolavoro di assurdità per ammirarlo quanto merita. Mario Bonaiuti ironizzava sui forni sempre più sofisticati che ci avrebbero permesso di cucinare pizze anche senza farina, ma qui siamo decisamente su di un altro livello. È come se qualcuno dicesse che si può prendere una zuppa di mare e fare e invertire il processo di cottura, fino a rianimare i pesci e a rimetterli guizzanti in mare.
Ma Pascale – che, ricordiamolo, in quanto agronomo dovrebbe essere uno scienziato – è capace anche di peggio. Predente ad esempio quanto ha scritto in un altro articolo pro-OGM: “La rivoluzione verde ha portato tanti vantaggi ma ha anche causato dei guai. Ma come si fa a dire di no? Dobbiamo andare avanti, cercare di migliorare le cose, allargare le possibilità… Se una cosa funziona, va bene. Certo, non ci sarà la perfezione. Bisogna fare delle prove e vedere che cosa succede”. In pratica viene elevato a scienza il detto contadino romagnolo ‘Oc, pasiensa e bus de cul’, ‘occhio, pazienza e… fortuna. Solo che i contadini romagnoli lo usano riferito a cose come piantare rape o giocare a beccaccino, non alla manipolazione delle basi della vita biologica)
Per farlo abbiamo solo una strada: ricerca e innovazione tecnologica. In fondo, e per esempio, una bottiglia di plastica meno spessa e più degradabile si può produrre se e solo se cresceranno (e non decresceranno) i contribuiti e la cultura dei chimici, dei fisici, dei matematici, dei microbiologici.
(Basta ironia e diamo la parola a Herman Daly, che ha lavorato alla banca mondiale e qualche esame di micro e macro economia deve averlo superato, quindi sarà sicuramente ascoltato da Pascale: “La mia risposta agli economisti che dicono: “Tutto quel che vogliamo è far crescere all’infinito il valore, non l’energia e la materia!” è dire: “Bello. In questo caso restringete e rallentate il flusso di materia ed energia, occupatevi di tecnologia e lasciate che il valore supportato da questo flusso prestabilito cresca per sempre ed io vi applaudirò. Io sarò contento ed anche voi lo sarete”. Questa sarebbe una soluzione facile per quelli che davvero possono far crescere e crescere per sempre il PIL con un flusso materiale fisso. Io penso che ci sia spazio per il progresso in questa direzione, ma penso anche che ci siano dei limiti.”
Ovviamente la tecnologia ricopre un ruolo fondamentale per aiutarci nella lotta ai cambiamenti climatici e al degrado ecologico, ma presentarla come una divinità salvatrice la inficia irrimediabilmente.
E’ importante descrivere e comprendere il metodo di ragionamento usato da Pascale, perché è tipico. Per confutare la decrescita presenti un’equazione matematica riferita al funzionamento dell’economia capitalistica come se fosse una legge naturale ineluttabile: e siccome il capitalismo si basa sull’espansione infinita, la crescita diventa irrinunciabile. Quindi ‘economia’ diventa sinonimo di ‘capitalismo’ e questo inteso non come un dato storico e quindi modificabile, ma come qualcosa di eterno e immutabile. Il secondo passo consiste nel ridicolizzare studi seri come quelli del Club di Roma e nell’esaltare il progresso tecnologico come mezzo non solo per tamponare i limiti termodinamici, ma facendo intendere che questi potranno essere superati. Le leggi della termodinamica – loro sì veramente naturali e immutabili – vengono completamente ignorate, alla faccia dei “contribuiti e la cultura dei chimici, dei fisici, dei matematici, dei microbiologici”)
Se crescerà la cultura e la competenza e di contro decresceranno le dichiarazioni facili e le parole amebe.
(Come quasi sempre capita con gli articoli della rubrica, anche questa conclusione è assolutamente perfetta e condivisibile… se solo fosse applicata agli autori!)
Immagine in evidenza: Antonio Pascale (tratta da Wikipedia)
Se avesse alcuna validità scientifica la fisiognomica del Lombroso, direi che, nel caso di Pascale, a guardarlo parebbe uno che potrebbe tutto tranne che discettare di crescita e decrescita.
Gli argomenti sono i soliti: triti e ritriti.
Nel caso di Pascale, sono forse presentati con un’aria canzonatoria che, per le persone di spirito, certo non guasta.
Tuttavia la “sostanza” del suo ragionamento assomiglia molto alle argomentazioni del Cittadino Weston; il quale opponeva alla Teoria del Plusvalore di Marx la convinzione che: ” se gli operai chiederanno piu’ salario e l’otterranno, anche le merci avranno un rincaro di importo corrispondente agli aumenti ricevuti”.
Il buon Marx, da gran signore, lo ridusse in briciole pure decantando le lodi della sua onestà intellettuale.
Anche per Pascale, mutuando un pezzo della replica di Marx a Weston si può dire che: il suo ragionamento è tanto grande e complesso che si può racchiudere in un guscio di noce”.
Di “meno e meglio”, il mio caro Pascale, significa che, per esempio, con un vecchio PC e software open source si possono fare meraviglie ad altissimo livello; senza dovere ricorrere al software della “finestra”: del tutto gratis scaricandolo dalla rete.
Questo software è il frutto dell’ingegno di migliaia di menti sparse negli atenei e nei centri di ricerca di tutto il mondo; i quali concepiscono la scienza, il sapere come un diritto di tutti e pertanto lo condividono.
Ciò deprime il PIL? Pazienza ma non deprime certo la conoscenza e la possibilità che un numero maggiore di persone possa accedervi liberamente.
Nella tanto vituperata Unione Sovietica ho visto la farmacista tagliare un blister di pillole e mettermene in mano tre. Mi ha detto che sarebbero bastate. Perchè sprecare le altre diciassette incluse nella confezione, che io avrei quasi sicuramente buttato via perchè inutilizzate?
Oggi il SSN sta dando direttive perchè le confezioni dei farmaci siano minimali: proprio per evitare di ingolfare le pattumiere con farmaci scaduti e inutilizzati.
Fosse solo un problema smaltire questi “rifiuti speciali”. In realtà è costo doppio: per produrli , commercializzarli e poi per smaltirli.
Ma anche questo fa PIL.
Per mantenere un buon livello di reddito, è necessario gestire le scorie.
E come no?
Non solo le scorie sono ricchezza e il riuso di “materie prime seconde” si traduce in denaro ma l’evitare di disperderle in ambiente, come nel caso dell’ILVA, evita che nell’area circostante la popolazione abbia tumori in numero doppio-triplo rispetto al resto della popolazione della Puglia.
E quanto PIL hanno prodotto gli studi per accertare i danni, i costi per le bonifiche, i costi in spese legali per portare in giudizio la Proprietà ed arrivare a sentenza?
Una delle caratteristiche del capitalismo nostrano, negli ultimi decenni, è stata quella di non considerare le “varianze” della produzione, alias gli scarti, come costi d’impresa.
Dunque, per mantenere competitive le merci, tonnellate di liquami, di fanghi maleodoranti, sono state scaricate nei fiumi, nei laghi; in barba alla Legge Merli.
E quanti danni ha fatto il fosforo nei detersivi, utilizzato per dare “un bucato che piu’ splendente non si può”?
Lo si chieda agli oceanografi che studiano l’eutrofizzazione del mediterraneo, o, semplicemente a coloro che di questi tempi, in anni passati, facevano il bagno tra alghe puzzolenti.
Ma “fare” e “disfare” è PIL.
Che avesse ragione Lombroso?