Delirio da delocalizzazione

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Pur non piacendomi, non penso assolutamente che Matteo Renzi sia un genio del male: di Michelangelo e di Mozart ne nascono raramente, ma per fortuna anche di Goebbels e di Stalin. Il nostro premier è semplicemente uno dei tanti politici post-moderni, che promuovono la propria immagine con argomenti al di fuori della politica (‘merito’, ‘riforme’, ‘governabilità’, e nel caso specifico del fiorentino la famosa ‘rottamazione’) e che – in un’epoca in cui la politica è degradata a governo dell’esistente – una volta al potere devono esaltare le proprie doti di ‘comunicatori’, ossia di imbonitori capaci di indorare la pillola. Bisogna anzi riconoscere a Renzi e tutto il suo staff che, grazie all’aspetto giovanile, alla verve retorica e a quella sfrontatezza da yuppies pronti a tutto, riescono abbastanza bene in questo compito.
E anche i più ostinati critici di Renzi, tra cui sicuramente va annoverato il sottoscritto, non possono fare a meno di ammirare certi capolavori dialettici. Le dichiarazioni rilasciate dopo il suo incontro a Pechino con il presidente Xi Jinping rientrano sicuramente in questa categoria; leggiamo da La Stampa:

«Altro che delocalizzare, se un’azienda come Piaggio non avesse aperto in Vietnam avrebbe chiuso Pontedera ed invece, internazionalizzando, ha salvato posti di lavoro in Italia». Una ventina di intese commerciali tra aziende italiane e cinesi, incontri con i massimi vertici istituzionali e addirittura l’apprezzamento del presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi, l’uomo che guida la seconda potenza economica mondiale, per le riforme avviate che hanno avuto «una grande risonanza internazionale»: potrebbe essere soddisfatto il presidente del consiglio al termine della sua prima missione intercontinentale. Ed invece Renzi rinvia i bilanci a quando si vedranno i frutti concreti della maggiore cooperazione con la Cina. E mette una pietra tombale sui risultati visti finora. «La bilancia commerciale tra noi e la Cina – sostiene con gli stretti collaboratori- è di 23 miliardi di investimenti a favore della Cina e di 10 per noi: è una sconfitta netta, dobbiamo correre e fare sistema per aumentare l’export e favorire l’arrivo dei cinesi in Italia»… Ma è un cambio di mentalità quello che il premier chiede alla diplomazia italiana, alla politica e anche ai sindacati. Basta, chiede Renzi, con il dibattito, e relative polemiche, «stucchevoli» sui mali della delocalizzazione della produzione italiana all’estero. Le aziende che aprono nuove fabbriche all’estero per produrre su mercati stranieri, come il sud est asiatico, si internazionalizzano perché «gli altri paesi fanno così» e i risultati in termini commerciali sono spesso migliori di quelli italiani. Anche perché con i ricavi all’estero le aziende italiane «portano business e posti di lavoro alle filiali in Italia».

Di fronte a tanta passione perdoneremo al premier il peccato veniale di aver travisato la realtà dei fatti, che parlano di una proprietà della Piaggio ostinata a chiudere Pontendera e rassegnatasi solo dopo l’elargizione di tre milioni di euro pubblici (tra sgravi e contributi) e il massiccio ricorso ai patti di solidarietà [1]. Del resto, ‘internazionalizzare’ era il motto del movimento operaio delle origini, anche se forse non immaginava lavoratori asiatici pagati 30-40 centesimi all’ora (con turni anche di dodici ore), al fine di permettere al generoso padrone bianco di ‘mantenere’ i più agiati operai europei. Dispiace davvero che Mao e Ho Chi Minh non siano vissuti abbastanza per vedere le loro nazioni testimoni di tale fulgido esempio di socialismo.
Nell’aprile scorso, intervistata dalla trasmissione 2Next di Rai2, il ministro allo sviluppo Federica Guidi – più pragmatica e meno poetica di Renzi – parlando della decisione della FIAT di lasciare l’Italia, aveva semplicemente affermato che “nessuna azienda può essere trattenuta a forza ed obbligata per legge ad investire”. Dovremmo smetterla quindi anche noi con le ‘polemiche stucchevoli’ sulla delocalizzazione e ‘cambiare mentalità’?
La delocalizzazione rappresenta la risposta storica del capitalismo alla crisi petrolifera del 1973 e alla crescente influenza politica della classe lavoratrice in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, e si è affermata come forma produttiva principe dell’era neoliberista. David Harvey ha chiamato questa fase ‘accumulazione flessibile’: essa abolisce le rigidità del paradigma fordista e, attraverso la riorganizzazione dei processi produttivi (favorita dal crescente sviluppo delle tecnologie informatiche), ha permesso di scorporarli e di trasferirli in aree geografiche a basso costo del lavoro, dove vengono impiantati stabilimenti volutamente provvisori e rapidi da smantellare, trasferibili al momento opportuno in zone ritenute più consone [2]. Grazie a questo espediente, il capitalismo ha potuto nuovamente disporre di un ‘esercito industriale di riserva’, come lo chiamava Marx, fatto di operai disposti a lavorare per standard economici e di sicurezza nettamente inferiori a quelli dei colleghi occidentali, i quali per rispondere alla concorrenza hanno dovuto rinunciare a molti diritti e benefit conquistati in un secolo di battaglie sindacali.
Le delocalizzazioni non danneggiano soltanto la sfera sociale, ma presentano pure un forte impatto ecologico, non solo perché il trasferimento della produzione avviene spesso per eludere le normative ambientali nord-americane e della UE, decisamente più rigide di quelle asiatiche, dell’America latina o dell’Europa orientale. La creazione di filiere inutilmente lunghe necessita infatti di una rete di trasporti intercontinentali sempre più vasta e interconnessa. Secondo le stime della IEA, nel 1973, all’apogeo dell’era fordista, i paesi dell’OCSE consumavano 958 mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti) di energia per l’industria e 695 mtep per i trasporti, mentre nel 2011 questo dato si è invertito: le delocalizzazioni hanno addirittura fatto abbassare il consumo energetico industriale (836 mtep), in compenso si è impennato quelli dei trasporti (1182 mtep).
Insomma, la delocalizzazione rappresenta l’emancipazione da qualsiasi considerazione sociale che non sia la compravendita di prodotti, elevando così il profitto a unica ragione d’esistere dell’impresa, la quale diventa davvero ‘responsabile solo di fronte agli azionisti’, come amava ripetere Milton Friedman. È il trionfo definitivo della persona giuridica su quella fisica. Si può giustificare in base ai tradizionali principi liberali di proprietà e libera impresa? Secondo me no.
Figure come il self made man dell’immaginario statunitense e l’imprenditore demiurgo smithiano appartengono alla sfera del mito o a circostanze storiche molto particolari, come il pionierismo del far west; al più si possono applicare alla piccola impresa familiare. Ma per la grande imprenditoria – per non parlare delle corporation transnazionali – il discorso è completamente diverso. Un’azienda raggiunge dimensioni medio-grandi se si trova all’interno di un contesto che garantisca un sistema di istruzione per formare i quadri manageriali e la manodopera qualificata, programmi di welfare, infrastrutture e servizi di vario genere. Per sviluppare la propria potenza economica, serve un governo che progetti politiche industriali favorevoli (e avverse alla concorrenza straniera) e incentivi, e che preveda un sistema di sicurezza sociale per i periodi di crisi al fine di privatizzare gli utili e socializzare le perdite. È vero, le aziende partecipano alla fiscalità generale (quando non trovano scandalose modalità per eluderla) ma, come faceva notare Ernst Friedrich Schumacher, si tratta di un misero obolo rispetto ai vantaggi reali conseguiti. Insomma, la pretesa libertà alla delocalizzazione assomiglia molto alla richiesta indecente di un figlio che, dopo essere stato allevato, nutrito e sostenuto dai genitori, una volta adulto rivendichi il diritto di trascurare qualsiasi obbligo verso i familiari.
Ma c’è anche una seconda considerazione da fare, che potremmo chiamare ‘principio dell’uomo-ragno’: quello per cui a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità, come amava ripetere lo zio Ben a suo nipote Peter.
A seconda che io guidi una bicicletta, uno scooter, un’automobile o un TIR, la mia responsabilità aumenta perché cresce la gravità dei rischi connessi a ciascun veicolo. Allo stesso modo, al crescere delle dimensioni di un’impresa, incrementano le sue ricadute sulla società: è pacifico che licenziare 10 persone non è come lasciarne a casa 2000, è altrettanto evidente che la chiusura di un esercizio familiare e di un maxi-stabilimento hanno costi per la collettività molto differenti. Così come il codice stradale lascia parecchia libertà di movimento alla bicicletta e allo scooter, impedendo invece ai TIR l’accesso a strade dove le loro dimensioni sarebbero fonte di pericolo, allo stesso modo al crescere dell’azienda (e quindi del suo potere economico) l’autonomia della dirigenza va limitata. L’imprenditore ha tutto il diritto di ‘fare quello che vuole’, come sostiene la Guidi, ma solo finché la sua compagnia mantiene proporzioni tali da non causare pesanti ricadute negative sulla comunità. In caso contrario, se desidera ampliarsi ulteriormente, deve accettare di sottostare a un controllo sociale sempre maggiore.
Molto interessante in tal senso è la proposta dello storico austriaco e militante di Attac Christian Felber. Egli fissa in 250 dipendenti il numero massimo per cui un’azienda possa essere governata in modo ‘dispotico’, dopodiché i diritti di voto e la proprietà passano in parte e per gradi ai dipendenti e alla collettività, e a partire da 1000 dipendenti i rappresentanti di lavoratori e comunità (eletti in modo diretto) disporrebbero di ben due terzi dei voti del consiglio di amministrazione. Con questo sistema non solo si potrebbero contrastare le delocalizzazioni, ma, come spiega Felber, si potrebbe ricercare “un sistema di amministrazione industriale più democratico e degno, un impiego più umano delle macchine e un’utilizzazione più intelligente dei frutti e della fatica umani”. [3]
Si possono ovviamente proporre molte soluzioni alternative. Non ci si può invece comportare come Renzi, limitarsi a scrollare le spalle perché “gli altri fanno così”, frase allo stesso tempo qualunquista e puerile, tipica di chi rifiuta doveri e responsabilità. Veramente un brutto scivolone dialettico per il leader del sedicente ‘governo del cambiamento’.

[1] Ricordiamo che presidente e amministratore delegato di Piaggio è Roberto Colaninno, e che suo figlio Matteo è un parlamentare del PD. Se questo non è proprio un conflitto di interessi, è comunque un suo parente molto prossimo.
[2] Proprio Colaninno ha già lamentato che in “Cina il costo del lavoro sarà conveniente per i prossimi 4-5 anni, poi sarà simile al nostro” (dichiarazione riportata dal sito www.sbilanciamoci.it).
[3] Frase tratta dal libro L’economia del bene comune. La proposta di Felber si differenzia dalla cogestione sindacale tedesca perché questa, pur correggendo il modello padronale classico, spesso non fa altro che coinvolgere i lavoratori in logiche aziendaliste.

Immagine in evidenza tratta da Wikimedia Commons

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Nasco a Milano il 7 febbraio 1978. Sono un docente precario di italiano e storia nella scuola superiore, interessato ai temi della sostenibilità ambientale e sociale. Insieme a Jacopo Simonetta ho scritto 'La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell'umanità, edito da Albatross Il Filo.

3 Commenti

  1. Davvero un bell’articolo anche se non specifica le azioni pratiche che potrebbero essere intraprese per cambiare la situazione (e il paradigma), ma si limita a citare Felbr…

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