La parola ‘crisi’, nell’immaginario collettivo modellato dai media, evoca un evento deflagrato improvvisamente nel 2008-09, legato al fallimento di un’importante banca d’affari internazionale (Lehman Brothers), ai mutui subprime e ad altre diavolerie finanziarie. E’ ragionevole tale descrizione? Più o meno come dire che uno tsunami è provocato dalle onde del mare, si scambiano cioé le cause con le conseguenze.
In realtà, il tonfo del 2008-09 rappresenta la tappa finale di un fenomeno che si è sviluppato in un arco di tempo molto più lungo. Già quarant’anni fa il motore della crescita economica mondiale aveva iniziato a incepparsi, originando situazioni esplose poco tempo dopo in tutta la loro gravità, quali il declino del mondo sovietico, l’egemonia della finanza sull’economia reale, l’ascesa della globalizzazione e della sua ideologia fondante (il neoliberismo), il progressivo arretramento dei diritti sindacali.
Il 1973, ultima volta in cui il tasso di crescita mondiale ha superato il 6%, ha segnato la conclusione del boom economico postbellico: non una data casuale, trattandosi dell’anno della grande crisi petrolifera. I libri di storia raccontano di una manovra politica orchestrata dai paesi aderenti all’OPEC, per lo più ostili a Israele, rei di aver chiuso i rubinetti del petrolio verso l’Occidente per protestare contro l’appoggio accordato al governo di Tel Aviv nel cosiddetto conflitto del Kippur con l’Egitto. Normalmente la ricostruzione si interrompe qui, evitando interrogativi abbastanza naturali, del tipo: ma se disponevano di questa potente arma di ricatto, perché hanno indugiato invece di sfoderarla appena ottenuta l’indipendenza dal colonialismo? La risposta più plausibile è che forzare i tempi sarebbe stato prematuro, almeno finché gli USA fossero rimasti i maggiori produttori di greggio, primato detenuto dalla fine della seconda guerra mondiale; tuttavia, intorno al 1970 i pozzi a stelle e strisce raggiunsero il picco di estrazione:
Per la cronaca, un tizio abitualmente additato a Cassandra paranoide e inaffidabile – il geologo Marion King Hubbert – aveva già previsto tutto nel 1956…
Insomma, il 1973 era il momento ideale per un boicottaggio, i cui effetti furono pertanto rovinosi. Molto interessante è la vulgata sulla fase successiva, generalmente ostentata da tecno-ottimisti, anti-decrescisti e altre creature simili come una chiara dimostrazione della fondatezza delle loro idee, ottimamente sintetizzata da Luca Simonetti in Contro la decrescita:
A partire dallo shock petrolifero del 1973, l’Occidente ha sviluppato in brevissimo tempo sistemi di risparmio energetico altamente efficaci, e sono stati proprio questi a indurre l’OPEC a mettere fine alla sua politica di aumento dei prezzi (come ammonì all’epoca Yamani, il ministro del petrolio saudita: aumentare i prezzi sarebbe servito solo ad affrettare il momento in cui l’Occidente avrebbe imparato una buona volta a fare a meno del petrolio, e quest’ultimo se ne sarebbe stato sottoterra per sempre). (pag. 65)
Una narrazione abbastanza edulcorata: se è vero che lo shock del 1973 è servito sicuramente da incentivo per promuovere l’efficienza energetica, nei paesi OCSE (che rappresentano abbastanza bene il concetto di ‘Occidente’) il consumo di petrolio si è ridotto solo durante la stagnazione economica 1975-1982, per poi riprendere a salire fino alla fine del secolo, superando ampiamente i valori pre-crisi:
Da dove è saltato fuori questo nuovo afflusso di greggio? Dai cospicui investimenti per sfruttare giacimenti al di fuori dell’area mediorientale(1); l’andamento delle estrazioni in Alaska, nel Mare del Nord e in Canada, caratterizzato da una brusca impennata dopo il 1973, parla da solo:
Se fino al conflitto del Kippur il petrolio era stato una risorsa relativamente a buon mercato, da lì in poi la situazione è profondamente mutata, al punto che i prezzi minimi post-crisi hanno sempre superato i picchi massimi registrati prima del 1973:
Siccome le principali attività del settore primario (agricoltura ed estrazione mineria) dipendono strettamente dal petrolio, se ne deduce che il prezzo delle materie prime, variabile precedentemente secondaria a livello macroeconomico, successivamente ha inciso in modo determinante sulla domanda aggregata, con ricadute inevitabili su servizi come il welfare state, basati sulla redistribuzione per finalità sociali dei benefici derivanti dalla crescita. (2)
Ovviamente, qualora Yamani avesse avuto ragione nel ritenere l’Occidente capace di rendersi indipendente dal petrolio, che senso ha avuto legarsi ulteriormente mani e piedi sfruttando persino risorse off shore e non convenzionali (come le sabbie bituminose canadesi), sottratte ai capricci dell’OPEC ma molto più costose ed ecologicamente impattanti? Possibile un comportamento tanto stupido se c’erano alternative a portata di mano?
Per rispondere, torniamo per un attimo a Hubbert. E’ curioso che i suoi detrattori si accaniscano contro le previsioni sul picco di produzione petrolifera – cioé ipotesi rivelatesi sostanzialmente corrette – quando potrebbero sbeffeggiarlo senza pietà presentando questa elaborazione, tratta dal famoso articolo del 1956 Nuclear Energy and the Fossil Fuels:
Alla faccia della Cassandra! Il geologo statunitense era invece un ottimista incallito, al punto da presumere che, una volta raggiunto il picco di produzione delle fonti fossili, il nucleare avrebbe garantito un apporto energetico doppio (2). Per comprendere la portata dell’errore di Hubbert, basti pensare che oggi solo il 5% circa di tutta l’energia primaria mondiale è di origine atomica (essendo però molti denigratori del peak oil persone tecno-ottimiste e/o filo-nucleariste… Meglio sorvolare su tali dettagli!).
Analizziamo l’evoluzione reale del comparto energetico al di là delle fantasie:
Dall’inizio dell’Ottocento fino al 1970, possiamo constatare un progressivo aumento dei consumi grazie all’introduzione di volta in volta di una nuova fonte qualitativamente superiore: dalla biomassa al carbone fossile e da questo al petrolio. La crisi del Kippur avrebbe dovuto segnare il passaggio di testimone all’atomo quale fonte prioritaria, ma ciò non è avvenuto e, stando agli scenari della IEA e altri enti analoghi, non capiterà mai (il nucleare mantiene la propria quota di produzione o al più registra un lieve aumento).
Come si è ovviato al mancato avvento dell’era atomica? Spremendo più petrolio possibile e integrando il suo apporto con quello di altre fonti fossili meno efficienti come il carbone (che ha così conosciuto una seconda giovinezza) e il gas (la cui estrazione è vertiginosamente aumentata), specialmente per la produzione elettrica (per l’inferiorità di carbone e gas, rimando a questo articolo di Vaclav Smil). Il consumo di petrolio è aumentato in termini assoluti, ma è diminuito percentualmente grazie all’apporto delle altre fossili, che oggi complessivamente forniscono l’80% dell’energia primaria globale.
Fonte: IEA Key World Energy Statistics 2016
Il risultato di questa operazione è stato un ‘boom’ negli anni Ottanta lontano parente dei ‘trenta gloriosi’, che ha comportato il crollo del socialismo reale (un sistema politico troppo rigido per adeguarsi alla nuova situazione), il declino inesorabile della socialdemocrazia in favore di politiche neoliberiste che hanno rimarcato nuovamente le disparità sociali, la delocalizzazione produttiva e l’avvento del post-fordismo, nonché l’ascesa del colosso cinese (e indiano), alimentato da miliardi di tonnellate di carbone bruciate in centrali termoelettriche spesso improvvisate in poche settimane. Ironia della sorte, il XXI secolo, che si immaginava caratterizzato dal trionfo della tecnologia nucleare, è cominciato invece sotto il segno della fonte energetica fossile più sporca e antiquata, ma capace tutt’oggi di produrre quasi il quadruplo dell’elettricità dell’atomo.
Tenuto conto del ridimensionamento delle aspettative legate alla tecnologia atomica (anche per quanto riguarda le sue evoluzioni, quali reattori autofertilizzanti o a fusione) e dei limiti intrinseci alle rinnovabili (rimando nuovamente all’articolo di Smil), ne dobbiamo concludere che il petrolio e le altre risorse fossili sono stati una sorta di ‘doping’ per il genere umano perché, parimenti a quando accade agli atleti che ricorrono a questa pratica, hanno consentito grandi prestazioni causando però gravi effetti collaterali. Il primo grave shock petrolifero della storia e la mancata ascesa del nucleare sarebbero dovuti servire da campanello di allarme per una brusca inversione di tendenza, ridimensionando crescita demografica e consumi; si è deciso invece di proseguire imperterriti aumentando l’assuefazione da fossili. Oggi, di fronte a un’ingannevole abbondanza di idrocarburi suggerita dai bassi prezzi, comportarsi come un drogato in crisi di astinenza sortirebbe effetti decisamente nefasti.
PS: ovviamente qualcuno obbietterà alla falsità del titolo, sostenendo che non ha senso chiamare il 1973 ‘inizio del tracollo’, invocando un ‘reality check’ fondato sulla maggior ricchezza pro capite, sulla riduzione della denutrizione, sull’aumento della speranza di vita e su tanti altri parametri associati al benessere che in quarant’anni hanno registrato miglioramenti significativi. “Dove sarebbe mai questo fantomatico tracollo?”, si chiederà stizzito. Dopo aver citato tante fonti autorevoli, permettetemi di chiudere con un banalissimo meme di Facebook, capace però di condensare egregiamente in una battuta complessi ragionamenti scientifici.
NOTE
(1) Ecco ad esempio gli investimenti statunitensi nel settore petrolio e gas, che non a caso hanno raggiunto l’apice nei primi anni Ottanta (fonte: ASPO Italia):
(2) Limitatamente agli USA, Hubbert riteneva possibile a partire dal 1980 una crescita annua del 10% della potenza installata, una stima che letta oggi e confrontata con i riscontri effettivi trasuda di irrealismo (fonte: EIA):
E’ bene precisare che la posizione del geologo sul nucleare non era affatto isolata ma anzi ampiamente condivisa da vasti settori del mondo scientifico.
(3) Confrontando l’andamento storico del prezzo del barile con quello della crescita economica USA, si evince chiaramente una correlazione tra i due fattori, simile a una proporzionalità inversa (fonte: ASPO Italia):
Immagine in evidenza: una ‘domenica a piedi’ del 1973 (fonte: Wikipedia)
Igor, leggo sempre con piacere i tuoi articoli perché trovo che abbiano il giusto mix di divulgazione e documentazione. Questo mi è piaciuto particolarmente, perché affonda il coltello nella piaga che porterà con buona probabilità al declino dell’umanità, l’hybris energetica. Personalmente ho un ricordo piacevole del 1973 e dei giorni dell’austerity. Col divieto assoluto di circolazione per qualunque mezzo a motore avevamo riscoperto le biciclette e persino i pattini a rotelle. Avevamo organizzato un meeting a metà strada tra bolognesi ed imolesi a Castel San Pietro e sulla via Emilia circolavano moltissime biciclette, non solo le nostre. La domenica seguente trenino locale fino ad Imola e tutti a pattinare per le vie del centro. D’accordo, c’era il sapore della novità, ma questa dimensione “acustica” della socializzazione ci metteva di buon umore… e non ci mancava niente !
Ciao e grazie Danilo! Nell’articolo parlo della decrescita intesa come riduzione inevitabile della crescita economica (con tutto cià che comporta), la tua è un’esperienza della decrescita felice, di come cioé si possa vivere serenamente (se non proprio meglio) con meno, condivisa tra l’altro anche da alcuni commentatori su Facebook. Buone feste!
Ottimo l’articolo e lo stile divulgativo. Azzeccatissima la vignetta del Titanic, che riassume bene tutto.
Vorrei fare i complimenti anche a Tomasetta per il pezzo su Malthus. Spero che il mondo della Decrescita consideri sempre di più l’idea della riduzione demografica, per tutti non solo per il terzo mondo. C’è una forte resistenza culturale intorno a questa idea secondo me, mi fa piacere che Giussani invece non la escluda, se pur con delle riserve. Capisco il discorso dello stile di vita da cambiare, ma alla lunga sarebbe come togliere acqua col secchio dal Titanic che affonda, avendo un’economia che decresce e una popolazione che aumenta. Altri elementi sfavorevoli all’incremento demografico sono il risc.climatico e l’automazione del lavoro, secondo un recente studio delle Nazioni Unite, riportato da un’articolo del Sole 24 ore.
Grazie. Buon 2017
Innanzitutto grazie per i complimenti Giuliano, per quanto riguarda il discorso riduzione demografica penso che siano necessarie alcune precisazioni:
– “Capisco il discorso dello stile di vita da cambiare, ma alla lunga sarebbe come togliere acqua col secchio dal Titanic che affonda, avendo un’economia che decresce e una popolazione che aumenta”; è vero anche il contrario, c’è uno scenario de I limiti dello sviluppo nella prima versione del 1972 dove l’umanità già da allora controlla le nascite sotto il livello di sostituzione, con il risultato però di ridurre la popolazione ma di avere persone ‘più grandi’ sul piano dell’impatto ecologico e quindi non si evita il tracollo. Oggi ad esempio 27 milioni di canadesi impattano come 150 milioni di Bengalesi; per cui le due cose, riduzione demografica e dei consumi, vanno a braccetto:
– gran parte delle correnti della decrescita (e comunque senza dubbio il sottoscritto) hanno rinunciato all’universalismo inteso come ‘insegno agli altri quello che devono fare’. Ci rivolgiamo alla nostra comunità, dove il problema ecologico fondamentale non è dato tanto dalla crescita demografica (siamo praticamente a natalità zero, come ci hanno ricordato campagne idiote come il Fertility Day). Un conto è parlare di problema demografico in Nigeria o Bangladesh, farlo da noi significa sostanzialmente disconoscere il problema gettando la croce sugli ‘altri’. Vedo molto neomalthusianesimo d’accatto che utilizza questa strategia.
– in Occidente o più in generale dove esistono welfare state e servizi alle persona la rinuncia a fare figli può avere conseguenze positive sul piano edonistico, in paesi arretrati invece la mancanza di una prole equivale a condannarsi a una vita breve… non bisognerebbe mai dimenticarselo prima di condannare comportamenti ‘irrazionali’ che in realtà una loro drammatica razionalità ce l’hanno eccome;
Paul Erlich e la sua formula IPAT (impatto = popolazione * consumi * impronta ecologica tecnologia) sono il faro per orientarsi alla ricerca della sostenibilità, più che ricercare una soluzione universale valida ovunque ogni comunità dovrebbe fare un esame di coscienza relativamente a queste variabili.
Nella sua analisi mancano pero aspetti importanti: e’ vero che oggi si fanno pochi figli, ma siamo comunque ai primi posti in Europa per densita demografica, al primo posto per consumo del territorio, aumentiamo comunque con l’immigrazione.
Inoltre, secondo lo studio fatto dall’ONU, l’automazione arrivera a sostituire fino al 66% del lavoro umano, nelle fabbriche, col pieno utilizzo del web, col telelavoro, sara’ ridotta molta occupazione e l’aumento della popolazione e del numero dei disoccupati peggiora i rapporti di forza tra capitale e lavoro, a tutto vantaggio del primo.
Questo senza nulla togliere alle ragioni del terzo mondo e a quanto detto da lei. Grazie.
In un estremo tentativo di farti capire la tua idiozia, ho esaudito la tua richiesta ed ho tolto il tuo post (debitamente linkato) dal mio blog. Non potevo certo correre il rischio che qualcuno pensasse che hai pure delle qualità nonostante l’arrogante stronxaggine.
Giusto per la cronaca, questa persona su Facebook mi attaccava personalmente invitando DFSN ad allontanarmi dal blog di cui sono admin… per poi ripubblicare miei contenuti sul suo! Gli ho semplicemente richiesto di essere coerente e di eliminarlo. Ti ringrazio per aver accolto la mia richiesta.